“Lo faccio per me” di Stefania Andreoli, psicologa e psicoterapeuta, è il libro che tutti i futuri (e correnti) genitori dovrebbero leggere. La maternità è uno degli aspetti più carichi di stereotipi culturali e false aspettative. Certo, sappiamo che non sarà tutto rose e fiori, ma non ci si immagina mai quanto sarà dura in certi momenti e soprattutto che spesso ci si ritrovi sole, a sobbarcarci ben oltre la metà del carico di lavoro familiare. Tutti si aspettano che il bimbo o bimba sia “della mamma” e che alla mamma spetti il ruolo prevalente di cura, soprattutto quando è piccolissimo. Se la neomamma si prende una boccata d’aria, amiche e parenti le diranno preoccupate (o meglio, giudicanti): “ma dove hai lasciato il bambino?”. Come se un esserino minuscolo non potesse vivere senza la sua mamma. La risposta è che all’esserino basta che ci sia qualcuno che si occupa di lui o lei, e che può essere anche il padre (!), la nonna, la babysitter. È in buone mani, non gli succederà niente di grave.
Eppure, la maternità quando arriva, diventa una parte integrante dell’identità della donna, tanto è vero che all’inizio lei perderà prima il cognome “sono Anna mamma di Ettore”, ma poi alla fine anche il nome. Dirà “sono mamma di Ettore” quando si presenterà alle altre mamme dell’asilo. Il nome diventa un accessorio, quando normalmente è il primo tratto identitario. Eravamo persone ben definite anche prima di diventare madri. Abbiamo studiato, lavorato, avevamo degli hobbies, avevamo una vita fatta di tante cose. Eppure, dopo la nascita, tutti si aspettano da noi che facciamo solo quello, le madri. Anzi le brave madri, spesso secondo modelli calati dall’altro, come se esistesse un solo tipo di madre “buona”. Quella che c’è sempre e che mette il bambino davanti alle sue esigenze, quella servizievole.
Beh, dopo aver letto questo libro, capiremo che anzi no, questo non è un modello auspicabile né sano di vivere la maternità. Che un sano egoismo non è qualcosa di cui vergognarsi, e anzi mantenere la propria identità darà più libertà di esprimersi alla nuova persona che abbiamo come figlio o figlia. E che i figli non ci appartengono solo perché li abbiamo generati, ma sono persone distinte da noi. Come scriveva il saggio, appartengono al mondo. E infine, mi ha molto colpita una visione inedita del concetto di “bamboccioni” (vi ricorderete questa definizione di un ex ministro), quei giovani adulti che non vogliono lasciare casa. Ma non vi voglio rovinare la sorpresa, leggetelo e poi se volete, fatemi sapere cosa ne pensate. Mi trovate sui social come @valentinapontello_ginecologa .