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Femminismo Personale

Carl Rogers era femminista?

Ho incontrato Carl Rogers, psicologo americano del ‘900, molto prima di interessarmi al femminismo. Nel 2014 ho conseguito il titolo di Counsellor secondo l’Approccio Centrato sulla Persona e ho potuto approfondire questa corrente psicologica, meno diffusa rispetto ad altri metodi, come il cognitivo-comportamentale. L’approccio centrato sulla persona definisce un sistema di valori, prima ancora di essere un metodo psicoterapico, ed è molto all’avanguardia per il suo tempo.

Nel segno dell’uguale

Il testo principale di Rogers è “Client centered therapy” (terapia centrata sul cliente) pubblicato nel 1951. L’approccio centrato sulla persona è rivoluzionario: per la prima volta esso mette sullo stesso piano il counselor ed il cliente. Fino ad allora il terapeuta era ritenuto l’esperto e il cliente un soggetto fragile, debole e bisognoso di aiuto. Carl Rogers afferma che il cliente ha in sé le potenzialità e le risorse per risolvere il suo problema, ed il compito del terapeuta è quello di facilitare l’emergere di tali risorse. Il terapeuta agisce come specchio, che rimandando le emozioni del cliente, ne favorisce l’introspezione ed il contatto con i sentimenti più profondi. L’emergere di tali sentimenti mette in grado il soggetto di attingere alle sue risorse più forti e vitali, e lo aiuta a trovare la sua soluzione al problema, senza che essa venga imposta dall’alto. Il cliente, in questo modo, realizza la sua tendenza attualizzante, cioè diventa ciò che è destinato per sua natura ad essere, al di fuori di ogni condizionamento esterno. La metafora più famosa di Rogers è la patata: qualsiasi essere vivente, anche una patata, cerca la luce e ha in sé la capacità di germogliare, fiorire e di diventare il meglio per le sue potenzialità. Questi concetti mi sono stati molto utili nella mia professione di ginecologa: mi hanno insegnato a non proporre decisioni preconfezionate, ma a informare in modo esaustivo sulle varie opzioni disponibili per aiutare a fare scelte ragionate. La persona assistita (cliente o paziente) è la migliore esperta di sé stessa e le sue disposizioni non dovrebbero mai essere giudicate dal medico o terapeuta.

Quando, più recentemente, ho iniziato a interessarmi al femminismo, il concetto che ne ho ricavato è che esso ha come scopo quello di abbattere le barriere e di superare le discriminazioni. Il femminismo si batte in nome del segno “uguale”: maschi e femmine devono avere le stesse opportunità per una vita felice e appagata. Vale lo stesso per tutte le altre diseguaglianze che generano disparità, come l’orientamento sessuale, l’etnia, la condizione di disabilità, il privilegio economico e così via. In questo senso, il femminismo non può essere un estremismo: l’uguaglianza non potrà essere “ugualissima”, contiene già il suo stesso concetto e non può creare prevaricazioni, se lo scopo è quello di essere “pari”. Anche nell’approccio centrato sulla persona, terapeuta e cliente sono considerati “pari” e collaborano per uno scopo comune: far sì che il cliente diventi pienamente sé stesso, non quello che gli altri si aspettano da lui o lei.

Empatia

Empatia è una bellissima parola, di cui sono pieni anche i corsi di comunicazione per i medici. Ma cosa vuol dire esattamente? L’empatia è quella condizione in cui il terapeuta si sente insieme e dentro ai sentimenti del cliente (come richiama l’etimologia, en pathos), riesce a vedere il mondo come egli lo vede, ne capisce la cornice di riferimento, e gli rimanda quello che ha visto e sentito ad un livello ancora più profondo, favorendo così la sua introspezione.

L’empatia consiste, quindi, nel mettersi nei panni dell’altro, e può manifestarsi secondo una scala in quattro livelli:

  • il livello 0 è un responso che non mostra segni di comprensione per i sentimenti del cliente. Può essere un commento irrilevante o ironico, un giudizio sul cliente o su persone a lui vicine, o un consiglio.
  • Il livello 1 corrisponde ad una comprensione parziale, che rimane in superficie, perdendo qualcosa dell’esperienza che viene riportata. Può essere espresso con un “come ti capisco” oppure “questo deve essere molto duro per te”, che assomiglia più alla simpatia, che non alla vera empatia.
  • Il livello 2 consiste nell’empatia accurata, chi ascolta mostra comprensione e accettazione delle emozioni di chi parla.
  • Il livello 3 si raggiunge quando si riesce a sondare con una riflessione del profondo, che fa emergere sentimenti sottostanti, anche al di là del livello di consapevolezza immediata del cliente.

In questo percorso di condivisione chi ascolta è attraversato dai sentimenti di chi parla, ma sa distinguerli dai propri, anche quando toccano temi sensibili per il terapeuta. Empatia vuol dire anche mettersi nei panni di chi subisce un torto, una violenza o una discriminazione. Un’educazione affettiva all’empatia sarebbe un’ottima prevenzione verso bullismo e violenza di genere, temi molto cari al femminismo.

Gruppi di incontro

L’approccio centrato sulla persona si rivolge non solo all’individuo, ma anche ai gruppi. Nel testo “I gruppi di incontro”, pubblicato nel 1978, Carl Rogers affronta le dinamiche e il processo del gruppo, e ne evidenzia i fattori curativi. Infatti, l’esperienza del gruppo consente di raggiungere alcuni obiettivi, in primo luogo permette agli individui di esplorare una dimensione di universalità, cioè li fa sentire meno soli, nel momento in cui condividono un problema comune. Nel gruppo si impara a dare e a ricevere supporto emotivo, trovando un equilibrio tra la propria indipendenza e la possibilità di chiedere aiuto agli altri se necessario. Questo ha un effetto positivo sulla propria autostima, favorisce la speranza e aiuta la ristrutturazione cognitiva nella percezione del sé e del sé in relazione agli altri. L’esperienza del gruppo crea una coesione, ci si aiuta a vicenda, e sentirsi in grado di aiutare gli altri aumenta il senso di fiducia, la propria autostima e la capacità di socializzazione. Nel gruppo si sperimentano l’accettazione di sé stessi e degli altri e si possono esprimere i propri sentimenti più profondi. Questo può portare a momenti di catarsi, che favoriscono la coesione e l’apprendimento interpersonale. Infatti osservando come si comportano gli altri e come affrontano le situazioni, ogni individuo può ricavarne un modello comportamentale, che lo aiuta ad affrontare e a risolvere il suo problema.

Carl Rogers è stato il primo a studiare le dinamiche dei gruppi di incontro. A queste riunioni poteva partecipare un numero indefinito di persone, a volte anche diverse decine. Il gruppo è un posto sicuro, dove ci si può esprimere senza timore di giudizi e dove chiunque può portare la propria voce. In un gruppo di incontro si può parlare di qualsiasi cosa, non c’è un ordine del giorno. Chi vuole può parlare e il contributo di ognuno arricchisce il dialogo che si crea. Nasce spontaneo fare un collegamento con i gruppi di autocoscienza femministi, che si muovono secondo dinamiche simili. Per essere facilitatore di un gruppo di incontro non è obbligatorio essere uno psicologo, ma bisogna comunque avere una formazione specifica. Per esempio, sempre in quegli anni nacquero i gruppi Balint, tenuti da medici di medicina generale, che discutevano dell’impatto emotivo del loro lavoro e delle difficoltà con i pazienti. I gruppi Balint esistono anche oggi e io vi ho partecipato, anche se rimangono un fenomeno di nicchia.

Le relazioni

Il punto in cui Rogers tocca più da vicino i temi femministi è quando parla di relazioni. Il testo è “Partners. Il matrimonio e le sue alternative”, edito nel 1974. Non so se Michela Murgia abbia mai letto questo libro, che parla di famiglie queer. Siamo negli anni della rivoluzione sessuale e delle battaglie per il diritto all’aborto e al divorzio, oltre che a una contraccezione sicura per tutti i tipi di relazione e non solo per le coppie sposate. Ricordiamo che la famiglia tradizionale è un concetto moderno: nelle civiltà contadine i nuclei familiari includevano molte persone e si viveva a stretto contatto con nonni, zii, fratelli, cugini. Con l’industrializzazione, le persone si sono spostate verso le città per vivere in piccoli appartamenti, spesso lontani dalle famiglie di origine e quindi senza supporto nella gestione dei figli. La “famiglia tradizionale”, su cui si spendono fiumi di retorica, viene identificata con la coppia eterosessuale con almeno un figlio. Ma anche se alcuni vogliono far pensare che questo modello sia il migliore, ancora oggi le forme delle relazioni rimangono molto variegate. Esistono divorzi e separazioni, figli di primo e di secondo letto, famiglie arcobaleno, madri e padri single, persone che stanno insieme, ma ognuno a casa sua. Il concetto di poliamore e di non-monogamie è sempre esistito anche se ostracizzato. La famiglia queer non è per forza un posto dove si fa sesso, ma dove si condividono dei legami affettivi importanti. Lo sono anche quelle signore anziane che decidono di vivere insieme per farsi compagnia e dividere le spese. E lo sono quegli amici così cari da chiamare fratelli o sorelle, quelli che ci siamo scelti. La famiglia queer segue il cuore e non la linea di sangue.

In conclusione, non ho dati per affermare che Carl Rogers fosse sensibile alle cause femministe, ma di sicuro il suo pensiero abbraccia anche concetti femministi e di questo mi posso dire grata a lui e a chi lo porta avanti.

Bibliografia

Terapia centrata sul cliente. C Rogers, 1951

I gruppi di incontro. C Rogers, 1976

Partners. Il matrimonio e le sue alternative. C Rogers, 1974

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