Linda,53 anni, mi dice che quando ha iniziato ad andare in menopausa, qualche anno fa, si è recata per una visita da una mia collega ginecologa, lamentandosi per le molte caldane e i dolori articolari diffusi. La medica le ha risposto che il dolore è il destino di noi donne e che non c’era niente da fare. Linda è rimasta esterrefatta, e anche io che ho raccolto questa testimonianza. Per fortuna Linda non si è rassegnata, e su consiglio del medico di base ha consultato un’altra professionista, che le ha prescritto una terapia ormonale sostitutiva con estrogeno naturale a basso dosaggio. La donna mi dice che è rinata, da quando ha iniziato, non ha più quei sintomi e le sembra di vivere tutti i vantaggi della fase fertile, ma senza gli svantaggi. Viene da me per chiedermi se può continuare.
Questo episodio è lo spunto per una riflessione su come viene percepito il dolore delle donne, non solo dai professionisti, ma dalla società in generale. C’è un problema di fondo culturale, ma anche religioso. Il dolore delle donne è l’eredità di Eva. Nelle Sacre Scritture, a seguito della disobbedienza di Eva (e di Adamo, ma in seconda battuta) Dio caccia i primi esseri umani dal Paradiso Terrestre, con la punizione per l’uomo, lavorare con sudore, e per la donna, partorire con dolore. Quindi, secondo il patriarcato, che attinge alla cultura di questa narrazione, l’uomo è destinato a realizzarsi con fatica fuori casa, mentre la donna deve fare e allevare i figli. La divisione dei ruoli è un mandato divino e pertanto non si può mettere in discussione. Inoltre, Eva contrae con Dio un debito che non sarà mai estinto: tutti i dolori di tutte le donne mai vissute sul pianeta e di quelle che seguiranno, non riusciranno mai a pareggiare il debito, acquisito con il fatto stesso di nascere. L’unica donna che nasce senza peccato originale è Maria di Nazareth, frutto dell’Immacolata Concezione. In base a questo racconto, verrebbe da pensare che la Madonna abbia partorito senza dolore, ma nessuno ci dice “partorisci come Maria”. In un ospedale della provincia fiorentina c’è però un cartello, “allatta al seno come la Madonna” (!).
Quando iniziò a svilupparsi la partoanalgesia verso la metà del 1800, ci furono delle forti resistenze culturali e religiose. Il parto senza dolore era “contro natura” e contro il mandato della punizione divina? Anche la regina Vittoria partorì con analgesia da cloroformio due dei suoi figli, e quando il vescovo si lamentò, lei gli mandò a dire una cosa del tipo “il prossimo lo fai tu”. L’autorità ecclesiastica, in seguito, volle comunque trovare un compromesso. Se era vero che Dio aveva imposto alle figlie di Eva di partorire con dolore, ciò non escludeva che il progresso medico e tecnologico avrebbe consentito di partorire senza dolore, così come all’uomo di lavorare con meno fatica. Del resto, secondo loro, già crescere dei figli (roba da madri, chiaramente) era impegnativo, e il debito di dolore si sarebbe in qualche modo ripagato (!).
Il patriarcato ha fatto pagare alle figlie di Eva discriminazioni di vari tipi: la donna, essendo la prima ad aver disobbedito e la seconda ad essere stata creata (la costola!), per natura doveva obbedire ed essere sottomessa all’uomo, che ne poteva disporre a piacimento. Ai tempi di Gesù, la donna era considerata come una capra, che forniva dei servizi e non era depositaria di diritti. E questo per molto tempo a seguire, fino ai primi movimenti femministi, che coincidono con la fine dell’ottocento e primi decenni del 1900 con la lotta per il diritto di voto. In Italia votiamo e possiamo essere elette per la prima volta nel 1946 mentre le lotte per i diritti civili (divorzio e rivendicazioni sulla salute sessuale e il diritto all’aborto sicuro) risalgono agli anni ’70.
Al di là della visione religiosa, per cultura il dolore delle donne viene ritenuto normale, e questo condiziona la possibilità di avere una diagnosi di patologie cosiddette invisibili (endometriosi, vulvodinia, fibromialgia) in tempo utile per avere una terapia efficace e prevenire complicanze e cronicità. Numerosi studi scientifici dimostrano che il dolore delle donne viene sottovalutato sia dagli uomini che dalle donne, e che questo condizionamento riguarda sia le persone comuni sia gli operatori sanitari. Questo fa sì che le donne abbiano dei servizi di salute meno efficaci, anche perché sono tarati sull’uomo. Il corpo maschile viene considerato lo standard (il maschio bianco di 175 cm che pesa 70 kg), quello femminile una deviazione. Di questo aspetto si occupa la medicina di genere, una branca della medicina che esamina come le stesse patologie si presentano in modo diverso negli uomini e nelle donne. È noto che esiste una risposta diversa a farmaci e vaccini, che fa sì che nelle donne l’incidenza di effetti collaterali sia più alta. La donna non è un uomo in miniatura, ma ha delle caratteristiche fisiche diverse (in termini di composizione corporea) e funzionali, in virtù del diverso assetto ormonale, che oltre tutto cambia ciclicamente ogni mese durante la vita fertile. Sicuramente è più costoso e impegnativo fare ricerca includendo anche le donne, ma questo non deve essere un motivo per non fare una medicina a misura di persona, come stabilito dall’OMS all’inizio degli anni 90.
La medicina di genere è una medicina femminista, che si propone di ridurre le diseguaglianze e di promuovere la parità dell’accesso per tutte e tutti ai servizi della salute. È altresì importante poter avere un approccio intersezionale, che consideri le discriminazioni legate non solo al genere, ma anche all’etnia, alla disabilità, alla classe sociale e a eventuali altre variabili nell’ottica di promuovere la salute di tutta la popolazione.
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